Trevelyan L.

Un mimo bipolare

Tye era molto giovane quando arrivò al Motel. Si guadagnava da vivere facendo il mimo per le strade della città, travestito da clown. Sua madre era stata trapezista in un circo russo ma, in seguito ad un'incidente durante uno spettacolo, rimase paralizzata e cieca da un occhio. Tye aveva all'epoca da poco compiuto cinque anni e presentò alla madre una guaritrice di scuola mesmeriana che, a quanto pare, fu in grado di compiere il miracolo.


Molti dei miei ospiti erano soliti raccontarmi, nella Grande Sala del Motel, i loro sogni. Ho sempre preso nota dei più interessanti. Eccone uno di Tye:
"Sono steso sul letto di morte a osservare le tende mosse dal vento e i pascoli macchiati di sangue. Le nuvole ghignano mentre una folla di gente si disperde intorno a me canticchiando canzoni d'infanzia. I bambini sono tutti a letto. Qualcuno viene soffocato nel sonno, altri vengono squartati per la cerimonia. Con i loro occhi si appicca il più grande falò che io abbia mai visto, mentre in una piccola stanza si compie la tragedia più grande, non ricordo cosa.
Mi guardo intorno e pare non ci sia più nessuno, allora mi alzo, ma c'è molto buio. Calpesto la terra con le mie scarpe da cadavere e inciampo su un corpo di donna. La credo morta ma respira. Apre gli occhi e mi fissa. Ci fissiamo per qualche istante, poi mi dice che non posso scappare, che tanto mi troveranno e mi uccideranno. Le chiedo chi sia e mi dice di essere mia madre, ma non ha la sua voce e non ha i suoi occhi. Si sente il rumore di un carro che si avvicina, giro la testa e sento una pistola puntata sulla mia nuca. Una voce di uomo mi dice di restare immobile e lo ascolto. Poi mi dice di camminare e cammino. Attraversiamo il campo. Si sentono urla di ogni tipo: urla di gioia, urla di disperazione, urla di piacere, urla di delirio. Continuo a camminare e lui mi chiede il mio nome. Non rispondo perché non mi esce la voce. Me lo richiede ma non riesco a rispondere. Preme più forte e provo a dire qualcosa che neanche io capisco.
- Cosa?, dice.
- Trevelyan, rispondo.
Lui comincia a ridere come un'invasato e mi dà un pugno sulla schiena e quasi mi getta a terra ma mi tira immediatamente su per i capelli e dice:
- Non ti ho chiesto chi eri idiota! Ti ho chiesto chi sei!.
Riconosco la voce di mio padre e dico:
- Papà!.
Lui tace un attimo, poi dice ironico:
- Adesso credi anche che io sia tuo padre!, e ride,Tuo padre è stata la mia cena ieri sera mentre mi fottevo tua madre!, e continua a ridere. Preme sulla mia schiena ed io non provo neanche più paura.
- Te lo dico io chi sei! Sei una merda! Una nullità! Uno sputo di Dio!.
Adesso sono io che rido perché ho capito il gioco e tanto non ho niente da perdere. Metto le mani dietro la schiena e sussurro:
- Come te...
Mi dice di stare zitto, di togliere la mani da lì e di continuare a camminare. Intravedo una luce. Sembra la finestra di una casa, Intorno nulla.
- Dove stiamo andando?, chiedo.
- Ti riporto a casa idiota!, risponde.
- Perché?.
- Fai troppe domande. Ho un po' fame..forse sarà il caso di tagliarti la lingua...
- Resterebbe la tua, dico.
E passa un cane e poi un altro e un altro ancora. Stanno rincorrendo una donna nuda e credo vogliano sbranarla ma lei scappa e urla e canta e ansima e le bestie nere si fanno sempre più grandi fino a disperdersi nel buio della notte che avanza.
- Qui ormai è tutto fottuto, mi dice l'uomo con la pistola. Non si sopravvive senza palle. Tu dove hai lasciato le tue eh?. Mi getta per terra, mi immobilizza, mi tocca le palle. Ah eccole! Le hai ancora! Vuoi che te le strappi? Urla, Vuoi che te le strappi eh? Vuoi che te le faccia ingoiare intere? E rispondi cazzo!.
- No, dico sottovoce.
- Cosa?.
- No.
- Non ho sentito! Cosa?.
- NO!, urlo.
- Allora alzati coglione e dimmi chi cazzo sei e perché mi hai chiamato.
- Io non ti ho chiamato!.
- Non dire cazzate o t'ammazzo. Chi cazzo sei e che cazzo vuoi?.
- Sopravvivere, credo.
- Sopravvivere? E come pensi di sopravvivere all'inferno? Non sai un cazzo tu. Non sai chi sei, non sai cosa vuoi e ti ammazzerei subito se non fosse per tuo padre.
- Cosa vuoi dire?.
- Niente, niente, cammina!.
- Cosa cazzo c'entra mio padre?.
- Ti ho detto di camminare e stai zitto. Adesso ascolta. Lo senti?.
- Cosa?.
- Il canto della luna!.
- Il canto della luna?
- Si, ascolta...
Ascolto ed effettivamente si sente una nenia provenire da molto lontano, ma è quasi impercettibile. Restiamo in ascolto, io e il mio assassino, e ci dirigiamo verso casa. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare. A un certo punto inciampo ancora una volta su qualcosa, ma questa volta è una pietra. Apro di scatto gli occhi e mi ritrovo davanti la finestra illuminata di quella casa che vedevamo da lontano. Mi accorgo di non sentire più la sua pistola sulla nuca. Mi giro e lui non c'è più. Mi rigiro e mi avvicino ancora un po' alla finestra e vedo una donna e un bambino seduti a tavola. La donna cerca di far mangiare il bambino che piange, ma con pessimi risultati. Poi alza lo sguardo e mi vede. Dice qualcosa al bambino, accenna un sorriso. Non capisco. Poi si dirige verso la porta, la apre, mi guarda, sorride, mi corre incontro, mi abbraccia e mi dice:
- Sono felice di rivederti. Dove sei stato?.
Mi prende per mano e mi porta dentro casa. Sembra molto felice di vedermi. Guarda il bambino e gli sorride. Lui mi guarda, esplode in un pianto meraviglioso, si butta giù dalla sedia, mi corre incontro, si aggrappa alla mia gamba con tutta la sua forza e continua a piangere dicendo:
- Papà! Mi sei mancato tanto!.
Sono immobilizzato, ma madre e figlio spingono verso il tavolo e mi fanno sedere. Il bambino comincia a mangiare da solo grossi bocconi sorridendomi felice. La madre mi guarda, contenta e preoccupata. Poi guarda suo figlio e gli dice:
- Te lo avevo detto che sarebbe tornato sano e salvo.
Il bambino ride e mangia. Finisce la sua cena in fretta. La madre lo accompagna a letto ma prima mi si aggrappa al collo e mi dice che mi ama e scappa via nella sua infinitamente dolce piccolezza. La madre torna, mi guarda, sorride.
- Non hai fame?, mi dice. Mangia qualcosa, sarai affamato.
Guardo il piatto che mi guarda. Lei mi passa un cucchiaio. Comincio a mangiare e lei mi chiede:
- Dove sei stato?
- Nel campo, rispondo.
- Credevamo fossi morto, mi dice.
- Credevo anche io che sarei morto. Forse sono morto.
- Non dire sciocchezze! Sei vivo e sei di nuovo a casa. Ti abbiamo aspettato tanto...Hai finito?
- Si, rispondo.
- Ti preparo un bagno caldo e dei vestiti puliti. Chi ti ha dato questa camicia così grande?
- Non ricordo. Stavano per uccidermi, credo.
- Sono morti in molti negli ultimi giorni.
- Lo so.
- Ma adesso sei a casa, sano e salvo. Vado a prepararti la roba.
Rimango da solo in cucina. Non ho il coraggio di alzarmi. Non ho la forza di alzarmi. Osservo il tavolo, il pavimento, le pareti, i libri, il gatto sul divano, le tende, il camino acceso. Mi chiedo dove sono finito ma lei torna e mi prende per mano e mi porta in una stanza e comincia a spogliarmi. la lascio fare. Mi toglie tutto, mi guarda il petto e si copre la bocca.
- Cos'hai fatto?, dice.
- Cosa?, dico.
- Questa cicatrice?.
Mi guardo allo specchio che ho davanti e vedo un serpente rosa che dal collo scende fino all'inguine in una curva scomposta e orribile.
- Che cosa ti hanno fatto?
- Non so, non ricordo.
Lei si avvicina e mi abbraccia e comincia a baciare la mia cicatrice. Comincia dal collo, poi scende sul petto e arriva al cuore e ricordo, finalmente ricordo che mi hanno aperto il torace per strapparmi il cuore e che lo hanno sostituito con un altro. Intanto lei scende sul mio fianco e bacia il mio inguine e non si ferma e non bacia più e siamo già distesi per terra ed io ho gli occhi chiusi e lei mi dice che mi ama mentre si muove sopra di me, completamente nuda. Apro gli occhi e vedo i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli, i suoi seni, le sue braccia. Le prendo la testa tra le mani e la porto verso la mia. Sfioro le sue labbra, poi mi perdo dentro la sua bocca e adesso sono io sopra di lei completamente abbandonata. Le accarezzo i capelli, le bacio la fronte, le bacio gli occhi mentre spingo con una spietata dolcezza e le sollevo una gamba. La mia mano sulla sua coscia nuda e morbida. Lei ha un sussulto e mi stringe a sé e le sue mani affondano nella mia schiena e scendono e poi risalgono. Mi preme forte sulla testa, la porta a lei, mi bacia e il suo corpo si inarca fino quasi a spezzarsi, poi si distende e intanto mi abbraccia con forza e mi sussurra all'orecchioTi amo e anche io svengo e ci addormentiamo legati l'uno all'altra per qualche minuto o per qualche ora o per qualche secolo.
Quando mi sveglio in casa non c'è nessuno, né mia moglie, né mio figlio. A dire il vero sembra una casa abbandonata, impolverata, disabitata. Sposto la polvere dallo specchio. Mi guardo e non ricordavo di essere così vecchio. Sono ancora nudo e non trovo più i miei vestiti sporchi. Fuori comincia ad alzarsi il sole e so che devo andare. Le stanze sono quasi vuote, la cucina immobile, il camino spento sputa l'ultima boccata di fumo. Salgo la scala di legno ed entro nella stanza di mio figlio: solo un lettino e le sue scarpe. La porta del bagno è chiusa. La apro e vedo il gatto morente in una pozza di vomito verdastro. Mi guarda e muore. Chiudo la porta e vado verso la mia camera da letto. la luce del sole entra dalla finestra. Sul letto non ci sono lenzuola e il materasso è strappato. Vedo qualcosa: una lettera. Sento degli spari provenire da fuori e corro verso l'armadio per prendere i miei vestiti, ma non c'è nient'altro che un vestito di mia moglie, un vestito nero. Lo indosso. Sebbene sia un po' stretto riesco a chiudere tutti i bottoni e la cerniera. Prendo la lettera, la metto in tasca, scendo le scale e di sotto tre uomini cercano qualcosa, probabilmente del cibo. Mi guardano e ridono. Sono ubriachi. Si chiedono ad alta voce:
- E questo chi cazzo è?
Sollevano da terra un fucile. Li guardo e sorrido e dico:
- Sono solo un fantasma, non abbiate paura. Tolgo subito il disturbo.
Entra una gallina. Uno dei tre uomini spara. La gallina strilla, poi tace. Esco fuori ed è una giornata meravigliosa. Comincio a camminare ma non so dove andare. Non si vede altro che campagna e ho indosso un vestito ridicolo e continuo a camminare e vedo qualcosa. Mi avvicino: un soldato morto. Gli tolgo i vestiti e li indosso e sento delle voci e scappo ma ho lasciato la lettera dentro la tasca del vestito nero di mia moglie e non posso più tornare indietro. Cerco riparo nel bosco. Mi siedo sotto ad un albero e aspetto, non so bene cosa. Mi addormento e sogno mio figlio in un deserto che indossa quell'abito nero e si dirige verso di me con la lettera in mano e sto per afferrarla quando sento battere sulla guancia:
- Signore, è vivo?.
Apro gli occhi. Un ragazzo mi guarda. io lo guardo.
- Credevo fosse morto, Signore, dice.
- No, non ancora, rispondo.
- Cosa fa qui? È pericoloso!, mi dice.
- Cosa?
- È pericoloso, capisce?
- Si, certo, dico, ma non saprei dove andare.
- Mi segua!.
Mi alzo. Le scarpe del soldato morto sono strette.
- Le fanno male?, mi chiede.
- Cosa?
- Le scarpe del soldato le fanno male ai piedi?
- Si, dico.
- Le dia a me e prenda le mie. Queste sono troppo grandi per me.
Ci scambiamo le scarpe. La sua pelle è chiara, i suoi occhi limpidi. I suoi piedi nudi sembrano piedi di chi non ha mai camminato. Prendo le sue scarpe e sono quasi perfette per me.
- Adesso va decisamente meglio, dice guardandosi i piedi. E lei come sta?
- Bene. Meglio. Grazie, rispondo.
Mi dice di seguirlo e lo seguo. Gli domando dove stiamo andando e dice:
- In città. Lì troveremo qualcuno disposto ad aiutarci.
- Bene, dico
- Bene, dice.
In poco tempo siamo in città. Attraversiamo la piazza, scendiamo giù per un vicolo.
- Io devo andare, mi dice all'improvviso. La lascio qui. Grazie di tutto.
- Grazie a te!, dico sorridendo.
Lui mi sorride e corre via. Mi volto e continuo a percorrere il vicolo finché si apre una porta e sento una voce di donna chiamarmi. Seguo la voce e dal buio dell'ingresso di una vecchia casa scorgo un volto poco illuminato di una sconosciuta.
-Non mi riconosci? Sono tua sorella. Sono passati tanti anni... Non importa, avvicinati.
Mi avvicino. Lei rimane immobile.
- Ancora un po', dice.
Mi avvicino di più.
- Questa è per te, dice, e prendo la lettera".